Oltre al sonno e alla concentrazione ci sono anche altre cose che non sono state dette a nessuno.
Giornate intere che scompaiono, e brevi attimi che diventano un’eternità.

(Peter Høeg)

venerdì 1 ottobre 2010

Gualberto Alvino. Una parola su Giulio Ferroni

In un pamphlet non meno fatuo e rotondamente innecessario dei bersagli su cui scocca da anni le sue infiammate saette (Scritture a perdere. La letteratura negli anni zero, Roma-Bari, Laterza, 2010) Giulio Ferroni avverte impellente il bisogno di dirci — spacciando vieti truismi per gemme sapienziali e condendoli con un’enfasi retorica da umiliare il più navigato «scrittore di successo» — che i programmi di Maria De Filippi, «scuola dello scorrevole nulla», proiettano «ogni aspetto dell’esistere in funzione dell’evidenza televisiva» e «dell’espansione spettacolare»; che i reality show, la televisione del dolore, le esibizioni di dilettanti sono i modelli in cui il voyeurismo tocca la sua apoteosi; che i talk show, non che produrre informazione, si risolvono in «gare di apparenza» dove non conta la ricerca della verità ma la mortificazione dell’avversario, e i valori proposti da molti telefilm «tracciano modelli di un mondo senza altri orizzonti che non siano quelli di un esistere come consumo»; che la società della comunicazione, luogo «dell’esteriorizzazione dell’esperienza» e della «serialità illimitata», determina l’inflazione della cultura e l’azzeramento d’ogni coscienza critica e riflessiva; che non tutti i libri sono buoni, ergo bisogna stamparne di meno, privilegiando la qualità, ossia la «ricerca dell’essenziale» (sic!); che il corpo di Eluana Englaro è stato costretto a una vita indegna di questo nome e gridano vendetta le parole del presidente del Consiglio, «giunto a dire che la condizione della ragazza era tale da permetterle comunque di partorire»; che si va imponendo sempre più il modello del mercato, per cui la validità di un prodotto artistico è determinata in base alle vendite e all’audience; che lobbies e conventicole lasciano ben poco spazio alla libertà e all’indipendenza degli autori, mentre gli intellettuali si sono ormai arresi «alle forme del degrado quotidiano, all’aggressiva necessità dell’esibizione, […] ai modelli di vita e di comunicazione suggeriti e imposti dai media».
Fior di concetti di cui rigurgitano le gazzette, la blogosfera, i salotti televisivi, i centri anziani, i circoli del tennis, i comitati di quartiere, i bar dello sport. Ma l’originalità del critico romano non ha confini. Col tono di chi svela le leggi dell’universo il nostro passionario tiene a puntualizzare nientemeno che Internet — come i coltelli, le seghe elettriche, gli aghi, l’energia atomica e il curaro — può essere un’arma a doppio taglio: «dipende sempre dalla coscienza e dall’intento di chi lo usa»; che Gomorra — dato altrettanto sacrosanto che proverbiale — non è poi un gran pezzo di letteratura; che i romanzi noir italiani non hanno carica critica e si somigliano come gocce d’acqua (toh, credevamo fossero capolavori assoluti); che la Mazzantini è una narratrice sciatta, la scrittura di Paolo Giordano neutra, plastificata, priva di qualunque accensione, e Stabat mater di Tiziano Scarpa uno stanco racconto di vicende banali, «senza nessun colore e nessuna ‘verità’ storica», come se nessuno sapesse che si tratta d’operazioni commerciali preparate a tavolino da editor sletterati e manager rampanti, figlie e sorelle di, col simbolo del dollaro stampato in fronte; che la critica letteraria è ormai del tutto esautorata e s’è ridotta a squallida propaganda editoriale; che meritano il più acceso biasimo — nonché un’attenzione degli scrittori assai maggiore di quella che mostrano per «l’inflazionata materia del noir» — l’abitudine dei ragazzi di stravaccarsi in treno appoggiando «le scarpe sul sedile di fronte, senza nessun riguardo per chi dovrà in seguito sedervisi» (in seguito, beninteso) e l’abbondare di rifiuti d’ogni sorta sui cigli delle strade statali (statali, non provinciali, comunali e cantonali, che sono invece pulitissime): «pacchetti vuoti di sigarette (l’osservazione può utilmente documentare il livello del mercato, indicando le marche più vendute), sacchetti di plastica pieni e vuoti [gli scrittori prestino la massima attenzione: pieni, ma anche vuoti!], bottiglie di vetro e di plastica [di cartone manco l’ombra], tetrapak per i più vari alimenti [non, si badi, per un solo alimento!], vaschette di carta alluminio, fazzoletti di carta [non già di ferro, né di creta] fatti volare da automobilisti certo tanto attenti all’igiene personale».
Questo per la pars destruens. Quanto alla construens, il grande storico della letteratura propone una ricetta altrettanto semplice che risolutiva: la forma breve del racconto, «oggi la più adatta a toccare la frammentarietà e la pluralità dell’esperienza, a scavarne il senso con tensione linguistica ed espressiva: essa può costituire una risposta critica allo zapping interminabile della comunicazione e alla sua apparente continuità e scorrevolezza, all’aggressione sistematica della televisione e della pubblicità. La relativa brevità dei racconti rispecchia in fondo lo spezzettarsi della realtà che oggi ci è dato […]. Proprio nel suo proiettare, a livelli diversi, questi frantumi […], il racconto si fa carico della residua possibilità dello stile e della ricerca linguistica, cose che non hanno ormai più spazio nel romanzo, condotto dalla rapidità e scorrevolezza della scrittura informatica a dare immagini illusorie, fittizie, mistificatrici».
Questione di misure, dunque, nient’altro che di misure. Vi hanno insegnato che esistono romanzi buoni e meno buoni, racconti bene e mal fatti, scritture forti e spesse e scritture grigie e futili, a prescindere dai temi trattati e dal numero delle pagine su cui si stendono? Ebbene, avete avuto pessimi maestri. Si sa, il romanzo è troppo lungo per poter riflettere «lo spezzettarsi della realtà» (solo il breve può essere specchio del frammentario e della pluralità esperienziale), ed è troppo rapido per non dare «immagini illusorie, fittizie, mistificatrici».
Avevamo la panacea sotto gli occhi e non lo sapevamo.
Scrittori, improvvisati o di razza, grandi o minimi che siate, accorciate le misure, basate le vostre narrazioni sui ragazzi stravaccati nei treni e tutti i mali della letteratura italiana saranno d’incanto sanati.

Prossimamente su «Fermenti».

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