Oltre al sonno e alla concentrazione ci sono anche altre cose che non sono state dette a nessuno.
Giornate intere che scompaiono, e brevi attimi che diventano un’eternità.

(Peter Høeg)

martedì 16 febbraio 2010

Paolo Guzzi. Lo spessore della lingua. Il fondo della visionarietà, la complessità del tempo in "Là comincia il Messico" di Gualberto Alvino

Quando si sono letti moltissimi libri, li si è studiati a fondo, si è assorbita la storia e le molte storie che raccontano, quando si è avvicinato lo spessore della lingua nei suoi aspetti più nascosti, nei suoi risvolti più misteriosi, quando si è penetrato in quel mondo di segni, in quei fonemi, di cui si sa tutto alla perfezione, allora si ha come un disgusto, una nausea, tanto più forte in quanto non se ne può fare comunque a meno, per tutto ciò che sappia di letteratura e di quel mondo inevitabile e stravagante, così attraente e repulsivo insieme, costituito dal tappeto di strumenti per cui la lingua si costruisce e si dipana.
Allora, come ha fatto Gualberto Alvino, filologo e studioso di letteratura italiana contemporanea, con questo lavoro (Là comincia il Messico, Firenze, Polistampa, 2008), si vuole continuare a rivivere quel mondo, questa volta creando qualcosa del tutto nuovo, originale, qualcosa che prima non c’era.
La crudeltà non è pietosa, né verso gli altri né verso sé stessi, il tutto è osservato e rappresentato per accumulo barocco di immagini, di linguaggio, di sensazioni.
Il ritmo trainante del linguaggio, nonostante le cesure e le interruzioni, gli spazi vuoti della pagina, ci spinge nel profondo della scrittura, seguendo l’itinerario di una vocazione letteraria che coinvolge l’autore e quindi il lettore.
Nel testo non succede nulla, sembra, se lo prendiamo come un viaggio all’interno della lingua; succede di tutto invece se seguiamo i mille accadimenti di cui veniamo resi partecipi.
L’esperienza fatta non può essere dimenticata. Le migliaia di libri letti e studiati, analizzati come un entomologo gli insetti, si affollano nella mente, la riempiono di idee, di immagini, di sogni e di nevrosi.
Quindi Alvino ha pensato a questo suo primo romanzo: una struttura rigorosa che ha l’andamento, dichiarato nei sottotitoli ai capitoli nell’indice, di una sinfonia musicale.
Un romanzo che è un antiromanzo eppure racconta, senza dialoghi eppure con un dialogo ininterrotto con l’altro, un altro sé stesso, cui l’autore si rivolge dandogli del tu. Un alter ego? Forse. Eppure qualcosa di diverso, in più, un dostoevskiano diario di un pazzo, un pazzo dotato di ragione e di metodo, come il Polonio dell’Amleto shakespeariano.
La follia e il disgusto, la passione per il disgusto e la necessità di procurarselo, una crudeltà senechiana e sadiana, un’attenzione per gli odori (i cattivi odori) alla Suskind, determinano questo singolare romanzo che vuole raccontare l’esperienza totale, la vita, una vita nella sua interezza, nello stesso tempo autobiografia ed invenzione, immaginazione e realtà, piuttosto una de-realtà, come chiamava Barthes quello stato a metà tra realtà ed irrealtà appunto, dovuto ad una mente che soffre.
In un testo che si vuole “sinfonico” il tempo è fondamentale. L’esperienza è sempre anteriore alla sua descrizione, il tempo umano è diverso dalla sua rappresentazione. La sua descrizione è difficile in quanto esiste una sovrabbondanza di vita che sovrasta, che fa mancare qualcosa che riempia l’abisso della propria esistenza.
Nel romanzo di Alvino questa sovrabbondanza compare ad ogni pagina, ad ogni rigo, in ogni aggettivazione, negli elenchi in cui si accumulano gli aggettivi, insoliti, da repertorio filologico, fonemi, parole in antico italiano, citazioni di poeti, in una scrittura in cui il tempo, appunto, sembra mancare il suo spazio; in cui, a volte, per l’eccessivo affrettarsi, perfino la punteggiatura è eliminata e la frase può interrompersi di colpo, senza finire il concetto.
Esiste in questo lavoro di Alvino un desiderio di abbracciare l’universo, non solo quello esistente intorno a noi, in cui si muove con odio e rancore la figura del narrante, ma anche di penetrare e farsi attraversare dalla scrittura che quell’universo descrive.
Così, come dice Poulet (la traduzione è del sottoscritto), «Sentire la propria esistenza come un abisso vuol dire sentire la mancanza infinita del momento presente. Il momento, generato dall’uomo, non basta più all’uomo» (G. Poulet, Etudes sur le temps humain, 1, Plon 1972, p. 33). In questo grande affresco scritto, in cui le capacità narrative e descrittive sono notevolissime, si avverte una velocità e un ritmo, a volte accelerati a volte rallentati, che trascinano il lettore, lo agganciano e a volte lo distolgono, ma sempre costringendolo alla lettura ed alla rilettura.
Se il Messico è a poca distanza, se siamo dunque al confine con il Texas, luogo di ogni sopruso e di ogni tormento, dobbiamo dunque soltanto attraversare il Rio Bravo per raggiungere la sedazione.
Ma l’autore non ci dice di avere raggiunto il Messico. Ce lo indica da lontano, da questo Texas che tutti ci ossessiona, tra sparatorie e fuorilegge.
Nella “durata” esiste la vita vissuta al di qua e al di là dell’istante: è questo istante che ogni scrittore vuole cogliere e che Gualberto Alvino prova, riuscendoci, a cogliere.
Oltre al tempo umano, un tempo disumano, piuttosto, l’altra coordinata del romazo di Alvino è la profondità. Profondità filosofica, filologica, profondità descrittiva che va sino dentro i corpi, con una visionarietà al microscopio che sviscera, è il caso di dire, il corpo e i corpi l’uno dentro l’altro, ponendo in superficie ciò che fisicamente ci sta dentro. Il cammino del personaggio narrante precipita inesorabilmente verso la dissezione, dapprima del testo, quindi del corpo. Una tale forsennata introspezione ravvicinata giunge alla rottura dei globuli e della cellula. L’amplesso è visto da dentro, si entra nel sesso come se ci fosse, nel membro virile, una luce che illumini minuziosamente ogni orifizio. La descrizione è così precisa, gli odori stessi sono talmente ben descritti che sembriamo sentirli, e il cervello esplode, trascinato da sé stesso verso il nulla. Bum, concludendo come nel romanzo.


Da «Zeta. Rivista internazionale di poesia e ricerche», XXXII 2010, 1 p. 24.

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