Oltre al sonno e alla concentrazione ci sono anche altre cose che non sono state dette a nessuno.
Giornate intere che scompaiono, e brevi attimi che diventano un’eternità.

(Peter Høeg)

venerdì 20 novembre 2009

Gualberto Alvino. Parodiando

6. Ernesto Ferrero

Quello fu l’autunno più ventoso che la storia di Trieste rammenti, ma nessuno, che mi consti, ne ha mai scritto né parlato, e a distanza di tanti anni non ne ho ancora compreso il motivo. Forse perché quest’epoca cinica e brutale ci costringe a dimenticare in fretta, tutto, anche le cose cocenti e dolorose, drammatiche e tragiche, amare e penose, tristi e crudeli: maceriamo tutto nel mortaio dell’oblio e un momento dopo scordiamo persino d’averlo fatto. Ma questo l’avrei capito più tardi. Molto più tardi. Crescendo.
Soffiava, il vento. Soffiava e urlava come una faina impazzita, scardinando pali e parapetti, scrollando insegne e carrozze, alberi e siepi, sferzando il molo, facendo oscillare i piroscafi all’àncora. Una mattina, mentre mi recavo a scuola proteggendomi gli occhi col cestino più leggero di una piuma (c’era poco, ben poco da mangiare allora), vidi un battellino staccarsi dalla gòmena e rovesciarsi sul dorso come uno scarafaggio; un mozzo perse il basco e lo rincorse per decametri e decametri sotto lo sguardo atterrito dei pescatori, le cui canne s’impigliavano ai pennoni, e non c’era verso di sbrogliarle se non ricorrendo all’aiuto di Gallo Spennato e di suo cognato, un albino maleodorante e sordomuto che noi chiamavamo Aquila Sconocchiata non solo perché veniva dalle lontane Indie, ma perché, pur soffrendo d’artrosi, quando faceva del bene sembrava volare. Gallo e Aquila erano gli unici a mantenersi impassibili nella bufera, le gote arrossate dal gelo, i capelli unti di brillantina, mentre lo spavento faceva tremare ai pescatori i polsi e le vene, pance e gambe, calzoni e cappelli. Loro due li guardavano con pietà, poi si arrampicavano sui pennoni con quattro bracciate, snodavano rapidamente le matasse e si lasciavano scivolare giù senza batter ciglio nella gratitudine generale.
L’unica nota allegra che mi riesca di ricordare in quell’inferno del 1927, a Trieste.
Fu un autunno lungo, il più lungo e temibile per unanime giudizio.
I panni stesi sui balconi della città vecchia si torcevano, svolazzavano, sembravano stendardi sontuosi e sprezzanti che annunciassero una vittoria. Alcuni crepitavano come petardi, altri emettevano il verso stridente e prolungato dei grilli che catturavo ogni mattina nell’orto di zio Beppi balzando da una frasca all’altra con l’agilità d’un felino, e che poi alloggiavo nella tasca interna della casacca fino a sera, quando li tiravo fuori, li salutavo e li liberavo nella bruma, pensando eccitato alla caccia del giorno dopo.
Mi sembra che sia passato un secolo da allora.
Quel vento m’incuteva una paura del diavolo, e correvo a rifugiarmi tra le braccia di colei che sola aveva il potere di placare la mia angoscia con un semplice gesto, una parola: mia madre. Che mi prendeva le mani, le stringeva come aggrappandosi all’ultima speranza, s’illuminava d’un sorriso etereo, mi scrutava per lunghi minuti con un cipiglio ardente e fin straziante, poi ciondolando il capo mormorava:
― Te capisco, fio mio, ah se te capisco, te capisco ben, 'dona santisima, fa spavento anca a mi 'sto ventasso de 'a malora, ma no pensarghe… pasarà.
E invece non passava. Non passava mai. Anzi, sibilava più forte, sempre più forte, da occidente, da oriente, da sud, da nord, dall’alto, dal basso, da destra, da sinistra, di fianco, e tutti si chiudevano nei pastrani e correvano terrorizzati a ripararsi nei portoni dei palazzi e delle chiese. Ma i vecchi e i bambini, per tacere dei malati, non resistevano a tanta furia: venivano risucchiati dai vortici e sparivano, come cancellati da un colpo di spugna.
Tutti erano terrorizzati. Tutti. Ma non mio padre, a cui il vento era sempre piaciuto, al punto da intristirsi quando si fermava. Se le foglie dell’acero che lui stesso aveva piantato da ragazzo davanti al balconcino del salotto accennavano a calmarsi, spalancava la finestra e smetteva di respirare finché il vento non riprendeva a soffiare. Allora godeva. Godeva con tutta l’anima, con gli occhi, con la bocca, con le viscere, con le braccia, con le gambe, coi gomiti, in ogni poro. Godeva della gioia di sentirsi carezzato da quelle dita forti e immateriali, imprendibili eppur concrete, più concrete del granito. Godeva per sé e per il mondo intero, anche per quelli che al vento non volevano abbandonarsi. Era un godimento umano, ma anche animale: insieme estremo e mite, informe e pensoso, epidermico e profondo. Ogni volta pareva che un vulcano gli scoppiasse dentro e gli squassasse tutte le fibre dell’essere.
Quando l’autunno finì e arrivò l’inverno, fui felice come non ero mai stato prima. Uscivo nelle strade e non mi sembrava vero di non sentire nemmeno un alito sugli indumenti e sulla pelle. Che bel mondo sarebbe il mondo, pensai, senza un soffio di vento!
Tutti fummo felici. Tranne mio padre, Gallo Spennato e Aquila Sconocchiata, che si costruirono con trecento metri di stoffa rigida e settemila stecche di pioppo il ventaglio più grande del Friuli-Venezia Giulia, e trascorsero mesi, interi mesi ad agitarlo nel giardino dietro casa per scacciare la malinconia in attesa del vento.
― Dove troveranno mai tanta costanza? ― mi domandai infilando un grillo nel taschino, mentre zio Beppi mi rincorreva brandendo la roncola a mo’ di fioretto.

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