Oltre al sonno e alla concentrazione ci sono anche altre cose che non sono state dette a nessuno.
Giornate intere che scompaiono, e brevi attimi che diventano un’eternità.

(Peter Høeg)

giovedì 6 agosto 2009

Là comincia il Messico

Gualberto Alvino vellica e soddisfa pienamente qualsivoglia predilezione per forme espressive gustose e dense di senso, per tutti i barocchismi, (gaddismi, manganellismi, pizzutismi) («iobocca: perpetuo mastichìo del nonpensarmi»), e contorsioni, e circumvoluzioni, ciò che è eccessivamente scabro o ridondante, ciò che è succosamente compiacente, certi lemmi pastosi, inusuali, desueti, i periodi brevi, secchi e sincopati, e nondimeno quelli dove la prosa s’allunga e tende all’infinito e la punteggiatura assume il ruolo, direi senz’altro la grande responsabilità, di coniugarsi e di fondersi alla metrica realizzando misteriose sincronie. Una danza, il fondo schiena del fantino con la groppa, una qualunque, d’un cavallo che è al trotto, montato all’inglese. Là comincia il Messico è un percorso sinusoidale verso il delirio, cui pare alludere l’avvinghiarsi di certi toni e timbri rari, ricercatissimi, austeri, fortemente inquietanti, un incalzare di dissonanze sullo sfondo. Luca Tassinari dice che «è un testo che lascia in secondo piano il significato, a tutto vantaggio della forma». La forma, in fondo, è tutto ciò che aggredisce, ciò che s’infiltra immediatamente nei nostri sensi. Su quest’impatto, sull’esito piuttosto di quest’impatto, il cervello riflette, rumina, medita lungamente. Si ha il senso, leggendo questo testo, che il Messico sia un implicito confine. Una soglia ontologica. Tutto ha un suo senso pieno, tutto si muove in una ribollente sintonia, all’interno e all’esterno di una discriminante. Opinabile, incerta, relativa, forse del tutto e solo affabulatoria.

Mauro Calenda

Gualberto Alvino
Là comincia il Messico
Firenze, Polistampa, 2008

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